domenica 23 settembre 2007

Chi c’è al caffè Wha?



Notte di Blues nella moderna Gomorra, come sempre. New York, The Big Apple, una città ragnatela dicevano, in grado di spremerti e gettarti via come guscio vuoto, ma io non cercavo di capirla, la vivevo. Si, proprio così, la vivevo ogni notte, nel cuore del Greenwich Village, in uno di quei miserabili buchi senza nome stipati tra la Bleecker e la 3rd Street, a guadagnarmi da vivere gomito a gomito con gli altri musicisti da caffè.
Ognuno si inventava un modo tutto suo di tirare su quattrini, ma tutti facevamo girare il cappello tra il pubblico e a volte neanche quello. Un tale, un certo Richie Havens, che vestiva sempre con pantaloni larghi colore cachi, camicia sbottonata fino al petto e una grezza pelliccia di castoro si era messo d’accordo con una ragazza. Lui suonava e lei faceva girare il cappello. Gran donna lei; passava tra i clienti e ad ognuno offriva un sorriso. Vestiva con una camicetta molto sbottonata e sopra un cappotto, ma sembrava nuda dalla cintola in su. Per chi allungava qualche dollaro aveva sempre un modo grazioso di ringraziare con un occhiolino e una tirata su di spalle, ma per chi allungava le mani un ringraziamento speciale gli veniva dal buttafuori forzuto, alla porta.
Le stradine del Greenwich Village erano piene di quei locali. Erano minuscoli, rumorosi e affollati, proprio come piacciono a me. Le insegne luminose, quando c’erano, portavano il nome del proprietario o dell’artista di punta. Come quel club su MacDougal Street, il Cafè Wha? Una sorta di caverna sotterranea senza licenza per gli alcolici, male illuminata e dal soffitto basso. Lì, l’imperatore indiscusso e intoccabile era Freddy Neil. Un vero amico Freddy, molto gentile nei modi anche se non ti faceva mai una confidenza. Mi dava sempre qualche spicciolo dopo la mia esibizione, dicendomi: “Tieni, così starai lontano dai guai”.
Eravamo in molti a frequentare quel locale. Che nessuno mi fraintenda, li giravamo un po’ tutti, ma quello aveva qualcosa di speciale. Forse era per la gente che ci passava, non saprei.
Di solito apriva verso la mezza e chiudeva a notte fonda. C’erano due tipi di spettacoli, si potrebbe dire uno per i tipi giusti e l’altro per personaggi usciti “dall’Ora del Dilettante”, non so se mi spiego. Freddy era un tipo comprensivo, molto diplomatico. Cercava di accontentare tutti. Così, chiunque ne avesse avuto voglia, avrebbe potuto esibirsi con facilità, ma nel pomeriggio. Freddy li presentava e loro avevano quindici minuti per farsi valere. Comici di mala sorte, imitatori, ventriloqui, poeti, perfino un duo che cantava canzoni di Broadway e un prestigiatore con tanto di coniglio nel cappello, un tizio con un turbante che ipnotizzava cavie scelte tra il pubblico e un altro il cui unico talento consisteva nel fare acrobazie con i muscoli facciali. Non era esattamente roba che avrebbe cambiato il mondo dello spettacolo.
Il mio preferito era Billy, ma da tutti era conosciuto come il Macellaio, forse per la lunga cicatrice che gli solcava il volto dal lato sinistro, il lato buono diceva lui. Sapeva fare una sola canzone e ne era ossessionato. Di solito Fred gliela lasciava cantare di pomeriggio. Al pubblico non piaceva. Dicevano che sembrava uscito dal vicolo degli incubi, con il suo cappotto troppo stretto e abbottonato fin sul collo e quello sguardo omicida dei suoi occhi a palla, di chi aveva visto troppe cose brutte nella sua vita. Si diceva che era anche stato messo in camicia di forza una volta, ma nessuno sa per cosa. Quella canzone però: “High-Heel Sneakers” la cantava piuttosto bene.
Freddy dal canto suo suonava quando aveva l’ispirazione giusta o il locare era pieno di gente. Aveva una certa grazia nel portamento, vestiva in modo tradizionale, era accigliato, meditabondo e con uno sguardo enigmatico, la pelle color pesca, i capelli scomposti dai ricci e una voce baritonale forte e rabbiosa che intonava note blues sparandole dritte verso il soffitto. Da qualche tempo ad accompagnarlo con l’armonica c’è un tipo nuovo. Un certo Bob Dylan, ma in tutta sincerità non credo che quello sia il suo vero nome. Ha i capelli scompigliati peggio di Freddy, un viso da eterno giovane e un’aria da stronzo menefreghista che pensa d’essere già arrivato. Di solito indossa camice di flanella spessa e pantaloni troppo larghi. Credo venga dal Minnesota o giù di la.
Una volta abbiamo scambiato due chiacchiere; mi ha chiesto in quale altro locale nel Greenwich Village si può suonare. Non ci crederete, l’ho spedito in un posto su Times Square noto come “Hubert e il suo circo-museo delle pulci”. Che risate i ragazzi quando lo hanno saputo.
Io, dal canto mio, passo le giornate sui marciapiedi della 42nd Street, o nella cucina di Norbert. Un altro dei personaggi del locale. Ha una faccia carnosa e indurita peggio del suo grembiule coperto di macchie di pomodoro, guance rotonde e cicatrici sul volto come segni di artigli. Un romantico il vecchio Norbert, tutto sommato; mette da parte i soldi per andare a Verona a visitare la tomba di Romeo e Giulietta, ma passa la vita tra le pareti della cucina da dieci anni ormai, convito per giunta di piacere un mucchio alle donne.
No, io alle donne non ci penso. E poi chi ne ha il tempo? Sono troppo im
pegnato ad ululare i miei pazzi versi alla Luna. Qual è il mio nome? Che diamine gente è Moondog!

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